lunedì 8 novembre 2010

Il mio nome


Mi chiamo Roberto. Per motivi “di famiglia”, come per molti di noi. Mia zia, sorella di mio padre, si chiamava Roberta, un nome che quando nacque, negli anni ’20, andava di moda per un film “Roberta” che aveva ottenuto un gran successo. Gli altri nomi di famiglia erano già occupati e Roberto la spuntò su “Stefano”, sostenuto da mia madre che soccombette nella dialettica coniugale (non era la prima volta e non fu l’ultima…).
Il nome che portavo mi piaceva. Era forse l’unica cosa che mi piaceva di me. Suonava bene, non era antiquato o strapaesano, era il nome di molti calciatori e in particolare di un idolo della mia infanzia, il portiere della Juventus Roberto Anzolin. Quando seppi che era un nome di origine germanica e che per di più significava “circonfuso di gloria” la mia soddisfazione raggiunse i vertice dell’eccellenza. La Germania voleva dire efficienza, serietà, combattività, tutti valori nei quali mi riconoscevo. Mi sentivo un po’ Sigfrido e un po’ Beckenbauer.
Anche il Santo che festeggiavo in occasione dell’onomastico aveva qualcosa di speciale. Ce ne erano due sul calendario. Mia madre decise che andava festeggiato il giorno di San Roberto Bellarmino. Un santo con un cognome (che inoltre suonava così bene…) mi sembrava più importante di un santo qualunque. L’onomastico era puntualmente festeggiato con auguri, doni e torta. Quando ero piuttosto piccolo e i miei lavoravano entrambi, ricordo benissimo di aver trovato i regali sul comodino, al risveglio. Un bel risveglio! C’era una bellissima e coloratissima paletta di plastica da vigile urbano… Ricordo ancora l’emozione.
Mia madre mi chiamava Roby, come anche oggi mi chiama mia moglie. Un soprannome che mi piaceva molto. Credevo che anche Robin Hood portasse il mio nome. All’epoca nella tv in bianco e nero della quale aspettavo spasmodicamente fino alle 17.30 la “Tv dei ragazzi” c’era una serie di telefilm sull’arciere di Sherwood che era, con Lancillotto, il mio eroe preferito. Per fortuna ero abbastanza grande quando seppi che Robin vuol dire semplicemente “usignolo”.
Mi piacquero anche altri diminutivi che mi affibbiarono, primo fra tutti “Bob”. C’era l’imbarazzo della scelta per le identificazioni: da Bob Kennedy a Bob Morse, mitico e fortissimo giocatore di pallacanestro, lo sport in cui riuscivo meglio, nonché astro della mia squadra preferita. I compagni mi chiamavano addirittura così, quando centravo il canestro nel campionato del liceo: “Bob Morse ha colpito ancora”. E infatti mi feci cucire il suo numero 9 sulla maglietta. 
Non ho mai avuto problemi a rispondere al “come ti chiami?” delle ragazze. Mi vergognavo molto di più del mio nasone, della mia magrezza scheletrica, della mia timidezza. Del nome, no. Quello era lo sperone del mio rompighiaccio nei rapporti con gli altri.  In un certo senso lo è ancora, quando lo posso spendere.

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